LetteraL

Le divagazioni

C’erano una volta un pezzo di storia, un luogo e un gruppo di persone.

Non esistevano: il numero 12 né ogni riferimento a questa quantità o convenzione algebrica, i biglietti da viaggio e quella abitudine sociale, cordiale ma spesso deleteria, di dover chiedere “Come stai?” o “Cosa ti è successo?”.

Il resto continuava ad esistere, come oggi esistono i giorni di permesso (retribuiti e non), l’app YouTube, la discografia di Paul Simon, le “bath bomb”, la skin care, il digiuno intermittente, il PNRR, Canale 5 e le birrerie artigianali che ospitano serate di stand-up comedy molto spassose, ma con quella sensazione un po’ algida per cui non tutti-tutti sono benvenuti.

Io continuavo a scrivere e riscrivere blocchi di frasi, a mandare avanti racconti che sembravano sgorgarsi sempre nel nuovo capitolo, a rimandare la tesi di un master, a chiamarmi Luca quando mi andava di farlo. Così, durante un giorno di tosse, mi detti il compito di scrivere una storia senza sessi (o senza genere? Stavo già sbagliando, incagliandomi in un anfratto spinoso di parole e temi troppo caldi per poter essere scelti senza conseguenze). Insomma stavo cercando di scrivere senza cercare nomi, pur vedendo bene volti e fisionomie in testa. Ma sulla carta volevo combinarne una grossa: mischiare tutto, impiastricciare colori e toni, concedendo al lettore l’unica possibilità di doversi affidare a questo scrittore che dietro la finzione narrativa dava l’impressione di sapere dove andare e dove far andare il lettore; e invece no.

Non volevo sembrare dozzinale nel farlo — pur sapendo che questo termine non sarebbe mai esistito, non sussistendo proprio il numero 12 come quantità e nozione algebrica –, realizzando uno di quei racconti che vogliono ambire necessariamente a scandalizzare una sola volta quei lettori che si sarebbero poi sentiti costretti a prorompere in un: “No, vabbè! Bellissimo!”, senza poi avere mai l’urgenza di rileggerlo. I lettori non erano affar mio. Così avevo deciso e cosi avrei voluto che fosse anche in futuro.

Ogni tanto mi capitava confondere la voce narrante, di usare una terza persona perché così ero riuscito a fare in un precedente racconto lungo. Mi innervosivo perché sembrava un inutile margine dentro cui forzare la scrittura, che invece reclamava di essere disinibita, sfacciata, che suonasse pure arrogante, spezzettata ma sufficientemente affilata da tagliare la carne dei personaggi. Mi arrabbiavo quando faceva capolino quella terza persona; così ero costretto a stracciare quello che avevo appena scritto e l’intera impalcatura di immagini che vi ruotavano attorno.

Forse ero più arrabbiato con me stesso che con quel terzo incomodo. Scoprii di esserlo perché passavo giorni a fantasticare un riconoscimento pubblico, palese, anche ben retribuito e con tutti gli onori della cronaca. Eppure la sveglia suonava sempre alle sette e con le promesse di diventare davvero bravo facevo colazione ogni giorno.

Avevo, al tempo, una relazione a distanza che si snodava tra lunghi periodi di lontananza e un cumulo di giorni ricavati a margine di ogni mese, vissuti con l’acceleratore premuto per rinnovare l’ebbrezza di un nuovo incontro. Ma dentro, che era pure fuori, mi si sfilacciava tutto e diventavano fantasticherie: una casa da condividere, colazioni e cene a raccontarci le giornate, il sesso che diventava non il culmine, ma un approdo interno, qualcosa su cui riposarsi. Mi spuntavano in fronte dolorosi brufoli arrossati e purulenti su cui passavo le dita e li premevo per evocare il dolore pungente, con la speranza di farli rientrare dentro, come i bernoccoli nei cartoni animati.

Lasciai perdere il racconto che stavo scrivendo. Speravo, prima o poi, che qualcuno lo avrebbe letto solo per dirmi, un po’ scandalizzato e con malcelata deferenza: “E perché non lo hai concluso? Questo è da pubblicare”. Grazie, Fernanda Pivano, ci farò un pensiero: probabilmente adesso che mi hai fatto notare che non sono stato tanto bravo da concludere, deciderò di esserlo e te lo sottoporrò quando avrò finito, così mi dici pure cosa c’è da cambiare e poi mi prenderai pure la mano e mi farai vedere come devo scancellare e riscrivere interi blocchi di frasi, mi segnerai in rosso i punti deboli e io farò finta che tu vorrai solo aiutarmi, mica sostituirti o approfittare della mia scrittura per saltare su un carrozzone che promette di andare a suon di sferzate e di “Io scriverei così…”.

Ero arrabbiato con qualsiasi ipotesi futura perché avevo imparato troppo bene a mettere al centro solo il presente — per forza! Lavoravo come impiegato! –, lasciando che questo futuro prendesse vita solo davanti a frasi ipotetiche, “se..”; oppure, quando volevo apparire meno ombroso e più promettente, dicevo “chissà se…”, perché col “chissà” chi parla ha già pensato a quello che sta pronosticando, ne ha accarezzato l’eventualità e sta cercando subdolamente di convincere l’ascoltatore che quello sia solo un pensiero estemporaneo, una divagazione.

Mi ero stancato seriamente delle molte ripetizioni, anche quelle nel racconto che, tra la testa e la mano, avevano già esaurito la loro urgenza. Decisi di prendermi dei giorni di permesso e di partire per incontrare quella persona. Quella.

Ricordo che durante il viaggio ripensai tante volte al racconto che avevo abortito; ripensavo a tutti i suoi connotati e a cosa avrei potuto migliorare per rimetterlo in sesto come nella chirurgia estetica. Scrivere e pensare di poter scrivere e raccontare così è pericolosissimo. Ci vogliono molte precauzioni perché questa abitudine non si infili anche nel racconto personale e quotidiano di noi stessi. Nessuno sarebbe in grado di indovinarti e forse qualcuno sarà costretto a chiederti la ragione di come stai. Ma queste cose non si vogliono sapere veramente, per questo non dobbiamo chiederle per rispettare la menzogna con cui ci raccontiamo.

Passammo due valichi e altrettante vallate. Ci fu una sosta durante la quale non scesi perché i passeggeri si erano già lamentati del bagno (uno si era pure inzaccherato di liquame l’orlo dei pantaloni toccando il bordo del water). L’esigenza di orinare non passò, ma il viaggio procedette senza intoppi fino alla stazione di arrivo. Questa era gremita, la gente si spintonava e senza cattiveria dicevano “Oh!” e poi tornavano a spingere per farsi più avanti e cercare di inquadrare meglio un’artista che stava seduta nella libreria della stazione per un firmacopie. Io sormontai la folla con lo sguardo paternalistico di chi quelle cose le ha già fatte, sapeva già come sarebbero andate e quanto in fretta sarebbe passata l’infatuazione per un’artista. Avevo l’appuntamento davanti all’uscita della metro che dava sullo spiazzo di una chiesa.

Napoli, per chi non è napoletano, sa venderti a buon prezzo la convinzione illusoria di conoscerla bene perché tutto quello che ti mostra sembra talmente vero che pensi ci sia una fregatura; e lo pensi da non napoletano. E allora ti fai furbo e inizi a credere che per capire Napoli non ti devi far fregare e, perciò, ti inventi di saper come funziona questa città: ci vuole la cazzimma. Chi dice di averla non ce l’ha; anzi l’attestato di merito arriva solo per parere esterno.

Quando risalii le scale della metropolitana rimasi frastornato dal ronzio dei motorini e dalla puzza di miscela acida e combusta. Stava già lì ad aspettarmi ma io potevo avanzare la scusa che quello ad aver viaggiato di più tra i due fossi io. Ci salutammo e io dovetti dire subito:

— Non riesco più a scriverti. Non so come cominciare se so già che non mi risponderai. Ho finito le combinazioni e mi sto stancando.

— Tu vuoi ancora bene a me? Mi pensi ogni tanto?

— Sì ma che c’entra? Io mi sto stancando perché non possiamo più evitare la domanda — feci io, con le lacrime agli occhi, mentre camminavamo vicini lungo il viale affollato.

— Lo so che vuoi sapere e che ci stai male — Disse prendendomi il braccio nell’incavo del gomito. Io iniziai a scivolare dentro una sensazione di appartenenza. Portava il cappuccio sulla testa e io sognavo di infilarmici dentro.

— Ci stai male pure tu, non negartelo.

— Ma tu non puoi compatire così tanto una persona. Devi avere un limite.

Avrei voluto descrivere sulla carta quel momento per deciderne la traiettoria, fotografare quel repentino fiotto di adrenalina che si impadronì dei miei polmoni portandomi a mille i giri di respiri che stavo prendendo per non scucirmi tutto e diventare pura intenzionalità, senza alcun carattere o buona maniera ad arginarmi. Maledissi il fatto di non avere con me un foglio né una penna. Avrei fatto fermare tutta Napoli, sarei sceso giù a Mergellina a cercare una penna se il tempo tra quello che stavo chiedendo a me stesso (di scrivere) e quello che avrei fatto di lì a pochi istanti (chiedere) me lo avesse concesso.

— Come stai?

Nel bus affondai la testa nel cappuccio della giacca che mi ero tolto per via del caldo. In quel buio artificiale aprii gli occhi cercando di vedere se da qualche parte entrasse una luce. Era un gioco che adoravo fare da bambino. C’era una sola regola difatti: guardare ogni punto del buio e vedere se c’era possibilità per la luce; se non c’era, usavo il buio come scenografia e fondale per le mie proiezioni. Se invece qualcosa si illuminava, se il buio rivelava una falla, un difetto di natura (non sarebbe più potuto essere buio), mi lanciavo dentro quel pertugio luminoso alla ricerca della sua origine. Il profumo di sebo, segretamente gradevole, mi convinse a rilassarmi finché non pensai: questa è una buona metafora sulla scrittura.

Quei cani

La strada di casa mia ha la sua solita espressione: faticosa per chi la deve salire, propizia per chi scende. Le poche macchine che passano si portano via il rumore. Poi torna un silenzio padrone ma discreto. Solo allora, alla finestra, l’occhio si calma, i nervi non lo trattengono più ed è libero di vagare. In questi giorni ho ricostruito le vicende di due cani randagi che solitamente si afflosciano sul praticello oltre la strada. Sono anni ormai che percorrono le vie e i sentieri del paese e la loro presenza rabdomante è diventata, strano a dirsi, una regolarità a cui siamo abituati. Si sono guadagnati del cibo per il semplice fatto di esser vivi; hanno subito versacci sgarbati, calci sguaiati per il solo fatto di esser cani. Sono di due razze diverse. Nonostante le loro condizioni precarie e malandate, mi piace immaginarli protagonisti di avventure mirabolanti. Eppure, quando passano troppi giorni e non li vedo nei paraggi, inizio a fare pensieri preoccupati. Mi consolo solo all’idea di vederli acciambellati l’uno vicino all’altro. Finché il mio occhio non li ritrova a gironzolare nel perimetro della mia vista, non posso far altro. Quando li rivedo mi soffermo e, come da bambino, cerco di imparare l’arte della fedeltà . Ma a giudicare dalla loro siesta placida, quella fedeltà  è un disegno semplice: un buffo coagulo di colori opposti ed io che dietro questa finestra, un diorama dalle lenti spesse, mi accontento di vederli annoiati affondare il muso tra l’erba di marzo.

Intanto

Sono giorni di sole
quelli che da soli
vediamo trapassare.

Scintillano le scocche
dei lampioni erti.
Un profumo: il fiuto
risale all’alloro

frondoso e gravido di
verde. Stufa pazienza
di biro che ruotano
di dita che pigiano
di occhi che scorrono

Si preparan intanto
gli attori di ruolo;

l’ennesima chiamata
per il diorama
delle sette.

Racconti per sopravvivere all’estate

Sottotitolo: Limpidi, notturni, coriacei, luminosi, asfissianti, rilassanti, sconquassati, freschi, integri, incoraggianti e ben vestiti.

 

QUELLA VOLTA IN CUI NEGOZIAI CON UNA BUSTA DI PLASTICA

Considerazione numero zero, l’assioma: negli ultimi anni la plastica ci ha regalato alcune delle più grandi e piacevoli forme di comodità e innovazioni che sarebbe oltraggioso non ringraziarla e augurarle un futuro migliore e di sereno riposo. La plastica ha provocato, provoca e continuerà a provocare danni di enorme entità se non verrà smaltita o — preferibilmente — riciclata nel modo migliore per l’ambiente. Lo stesso ambiente in cui tu, oh lettore, oh lettrice, voi, preferite bere dalla cannuccia dei cocktail segretamente annacquati e dall’imbarazzante sapore zuccheroso. Nota a margine: anche l’assunzione di zuccheri complessi, se elevata, comporta rischi importanti per la salute e, ancora, per l’ambiente. Lo stesso ambiente in cui tu, oh voi, lettori e lettrici, preferite bere del latte di soia zuccherato artificialmente, imbottigliato, guardate un po’, in una confezione di plastica. E la cosa potrebbe srotolarsi per molte pagine ancora.

Cosa ci fai o busta in ciel, dimmi, cosa ci fai? Chi le braccia ti inchiodò a quella grondaia? Sono stati i nostri antenati? O forse è stata l’accaldata signora in vestaglia ad averti appoggiata lì per non dimenticarti e per poi dimenticarti? Ora sei la silhouette di un bambino travestito da fantasma gender unfriendly, l’incarto di taffettà che avvolge i confetti, il grembiule scolastico ereditato, decolorato e ricolorato, dai dettami fascisti, una razza dallo strano colore incatenata in un mare d’aria — attualmente poca — e caldo — attualmente molto –, la sciarpa della Fracci in Tv dopo esser finita nel ciclo di lavaggio sbagliato, la liquefatta, poi sbriciolata, poi compattata, poi ritagliata camicia di un autista di autobus interurbani, una pubblicità di di Telefono Azzurro, i prodromi di una corrente calda dal Marocco, ovvero l’usurpatrice del mestiere del galletto di ferro sui comignoli, un film di Salvadores sul canale in chiaro alle tre e mezza di pomeriggio, il contrappunto cromatico assurdo del rame e del metallo che ti sorreggono, una forma in divenire nella congerie di ipotesi e immagini adattabili dai relativi intelletti individuali prima che una nota casa di produzione cinematografica incarichi un regista di fissare per gli spettatori l’estetica di una busta azzurra in un film il cui soggetto sia tu e la cui distribuzione venga affidata e benedetta dai mitici intellettuali di sinistra durante un cineforum estivo a Bologna, disertato per via della puntata rivelatrice di Temptation Island, una busta annodata ad una grondaia e svolazzante in questo pomeriggio in cui ti guardo.

Quanto saresti disposta a pagarmi se io ti liberassi? Se io decidessi di salire la salita che ci separa e ti venissi a sciogliere i nodi, tu con cosa mi ringrazieresti? Hai ancora tempo per pensarci, non sciupare la possibilità di tornare in uso, di assolvere ai tuoi compiti, anche quelli più tristemente noti per l’ambiente. Tra l’altro sei fatta anche di un materiale messo al bando dalla legge; ma tu, da buona insolente, te ne stai lì a dimenarti in pose plastiche (risata) e maliziose al primo filo di vento che ti sfiora le fibre. Ti lasceresti infilare una bella anguria ovale il cui sapore resta insondabile fino all’apertura perché — diciamolo una volta per tutte, battere la mano sopra la scorza è un gesto completamente inutile e insulso ma che conferisce immediata autorità in materia di acquisti, pur non sapendo quale rumore effettivamente faccia un’anguria matura, non essendo stati mai dichiarati dei parametri sonori per un buon acquisto — la sculacciata presa non funziona come quei sonar nei film? Oppure potrei riempirti di soldi, di ghiaccio, di erba appena tagliata, della mia testa per giocarti pericolosamente, metaforicamente di pensieri, di pause, di fotografie, di aria, delle mie braccia per poi fingere di essere un parà in missione sulle scale di casa.

Ma tu te ne stai lì, oh busta, imperscrutabile come la lotteria di giugno e muovi i miei pensieri che rantolano e quasi li vinci, ribaltando le prospettive polari che io, autore, ho deciso di allestire tra queste righe e a cui il lettore potrà non più credere, arrivato a questo punto della lettura. Mi rimane soltanto, per evitare il linciaggio o l’imbarazzo delle forche caudine, di (far) constatare che tutto ciò è partito dal fatto che sono qui seduto vicino al davanzale e ho notato che il colore della tazza che ho finito di sorseggiare è della tua stessa tinta. Ma potrebbe essere che abbia sbagliato.

N. di cartone

 

 

Rimetto la sigaretta nel pacchetto. Stritolo con le mani il cartone che resiste agli spigoli: anche la fattura più fragile sa rendersi coriacea. Nelle sere di bagordi con i soliti ho cercato nelle bionde la comodità di un discorso su quella là, che se la fa con quel tipaccio lì, ma chi?, e sbrìgati che qua fuori si gela e sono senza giacca. Estati tranquille a boccheggiare fumo per invadere un pezzo di cielo, per ritardare i saluti o adempiere a rituali mai troppo consueti. I mattini di bocche amareggiate che neanche l’acqua riesce a diluire celavano l’improponibile offerta di smetterla: “il fumo uccide”. 

Non ho mai capito come fumare da solo: mi spaventa l’idea di farlo per ingannare il tempo. Mi intristisce l’idea della sigaretta bruciata per riflettere; mi disgusta l’idea di passare più di mezza giornata con l’indice e il medio puzzolenti e con quel sapore acidognolo aggrappato in gola. E quanta fretta nel tentativo di farlo! Troppe occhiate rapide lanciate più in là di una normale preoccupazione, mentre il mondo respirava più sano. Mi dà l’idea di infilarmi dentro un armadio di specchi: riflessi(oni) divertenti solo per i primi quaranta secondi.

Ogni volta che camminavo mano nella mano con nonna mi fermavo a rimirare un pezzo di vetro verde incastonato in una colata di cemento a terra. Col solleone di giugno era quello lo smeraldo più bello attorno ai miei piccoli occhi. E a nulla valevano le sollecitazioni della mamma di papà, con cui poi ero solito inerpicarmi su di un sentiero erto che tagliava per la collina su cui saremmo tornati a mangiare la pizza bianco-tonda comprata nel forno dell’omaccione allegro.

L’altra nonna aveva una cantina talmente umida che quando respiravi, bevevi. Da lei le estati erano frondose, sonnolente per tutti tranne che per me che non ho mai dormito il pomeriggio ed ero costretto a tenere la TV al minimo e a inventare giochi silenziosi. Così leggevo tutto quello che mi capitasse a tiro di naso, consumando tragitti lunghi e arzigogolati tra quelle lettere stampate. Oppure mi avventuravo sul selciato ruvido portandomi nello zainetto quel silenzio casalingo per non disturbare nemmeno il primo pomeriggio. La sala dove dormiva di fianco il nonno era satura di russate e di cenere di Diana rosse, pacchetto morbido. Il posacenere raccoglieva una Termopili di macerie grigie e di mozziconi ancora caldi di brace: un filo di fumo, talvolta, sopravviveva alle dita che ne avevano tranciato il corpo. La voglia di diventare più grandi era l’unico ostacolo a quel tempo.

Domattina mi alzerò prima del solito. Con le guance arrotondate dagli sbuffi e gli occhi che cercano di saltar giù dalla finestra per correre dietro qualche refolo di vento e obliterare il biglietto per una giornata meno impegnativa. Io intanto, che se rido mi si spacca il viso, io che poco dopo guardo la pubblicità e poi lo faccio ogni giorno: un mattone che voleva diventar casa. Papà che parla attorno alla sigaretta in mezzo ai denti. Gli amori al mare col costume sotto, i tuffi con la testa al telefono; sì ti ascolto, dimmi dài, e la sigaretta che si rigira tra le dita sbullonate.Schermata 2018-06-28 alle 00.28.03

Si accendevano una, tre, otto quando la partita volgeva al peggio e la difesa concedeva buchi imperdonabili — ma che ti fischi!? — e con le mani sulla testa, vabbè andiamocene che qua tira brutta aria, detto tra una pacca sulla spalla e un calcio ai sassi delusi. Le gelosie tra amici, roba da voler urlare in chiesa, per poi fermarsi un poco sul solito muretto sbrecciato e cercare di non convincersi del peggio perché. Le mani strette sulle spalle e lo sguardo di lato per intendersi meglio sul presente, le teste come girasoli.

A far correre di notte i fari dell’auto sui cancelli e gli occhi su quelle porte in penombra sperando che la strada per il letto non fosse cambiata; una sedia di vestiti da liberare e poi da riempire, scocciati dalla giornata e con quella foto della prima comunione in cui sbirciare, sadicamente, quel sorriso faticoso estratto di fronte a certi regali.

Chissà se andrò di nuovo di fretta. Quel bambino al mare incastrato dal gesso che piangeva mentre i giorni d’estate lo sorpassavano a sinistra. Nelle tasche la salma di una caramella e un “non lo so”; un po’ di febbre nella felpa a novembre, quando si misero a sparare qui vicino. E dopo la buriana, oltre i tavolini del bar, i prati che si lisciavano come gattini, mentre un vento storto da lontano rovesciava le cravatte e rimbalzava la cicca lanciata da una schicchera.Schermata 2018-06-28 alle 00.15.42

Quando alla stazione c’era quell’ubriacone che mi chiese, in un italiano masticato e con la barba incollata, una sigaretta, mentre il suo cane, mogio e moccoloso, annusava le mie tasche con gli occhi della questua. Con le braccia strette al mio giaccone e i piedi a martello che battevano per far fluire più sangue nei capillari, piantai lo sguardo a terra quando un gruppo di ragazze si misero a ridacchiare, fresche come un mazzo d’insalata, ravvivandosi i capelli. Su quanti sedili mi sono seduto, su quanti è crollata la mia testa vinta, e da quanti mi sono alzato alla fermata sbagliata come quando allo stadio segnano un goal. Tornava mamma a casa con un nuovo cappotto e tutti intorno a dirle come le stava. 

Ho passato certe sere in garitta, a difendere il mio futuro mentre la scrivania invecchiava di un anno e il cellulare si illuminava ai messaggi sbagliati. Con quell’amico, prima di chiedermi come stessi, andavamo a prendere una birra a quel bar, poco prima che chiudesse e appena in tempo per non diventare più grandi. Quelle sere in cui la sicurezza rompeva le righe con troppa facilità e, dove l’ho nascosto il pacchetto?, chiudi la porta che mamma se ne accorge! Poco prima di entrare in quell’aula, con i maglioni di una taglia più grande e con il gubbino ricoperto dal freddo del mattino che si tagliava in due come una mela, temevo il quattro di quella stronza. Le radio dalle macchine coi “grandi successi” e noi seduti scomposti con le penne a sfera a rotolare.

Due ragazze scendono le scale in piano sequenza; una è intenta a darle forza con le parole, l’altra cerca di staccare le lacrime aggrappate agli occhi. Roma che quella sera era fresca, marezzata e sapeva di mandorle, quando tra i laureati si cercavano giudici di pace e i motorini si muovevano senza caschi. 

In questo embolo di silenzio che mi è concesso trovo salvacondotti al presente e supero la dogana della notte. Prendo l’accendino e faccio scoccare due scintille nel buio friabile.Schermata 2018-06-28 alle 00.15.51

 

 

 

 

Effetto Tyndall

L’acqua un poco turbata soffia su vapore denso, in volute corpose ma fragili. Con grande aleatorietà esso si infonde delle tante molecole che abitano la stanza in cui siedo, accanto alla finestra del salotto. Le marezzature violetto delle nuvole srotolate in cielo, quasi a sfiorare un bordo scosceso della montagna, mi illanguidiscono; c’è ancora qualcosa di irrisolto in questo tramonto. Il sole lotta ancora nei suoi ultimi scampoli raggianti dietro la trama di una quercia da potare e non sembra cedere il passo alle tenebre. Colto da una  flebile voglia di ragionare calmamente, i miei pensieri si dispongono nell’atmosfera e, coinvolti dalle ultime luci, assumono una magnifica fisionomia.

C’è ancora tanta ingiustizia nel mondo, tante storie che ora possiamo o dobbiamo finalmente o purtroppo conoscere. Ci sono i miei amici, le persone amate, le persone, la famiglia, il mio riflesso. Siamo tanti e siamo tutti qui ora con qualche quattrino tra le mani, qualche scarpa allacciata male, in coda sulla strada, nel supermarket. Se la persona più ricca sulla faccia della terra riuscisse a ritenersi soddisfatta a fine giornata, se lo studente riuscisse a chiudere o aprire i libri con soddisfazione, se un amante riuscisse ancora ad amare furtivamente ma con segreta soddisfazione, se l’affamato riuscisse a coricarsi soddisfatto e sazio della giornata passata, se il malato da guarirsi riuscisse a dirsi soddisfatto delle possibilità che gli restano, se il malato senza guarigione riuscisse a dirsi soddisfatto di ciò che lascerà dietro di sé, se il neonato riuscisse a sentirsi soddisfatto dopo l’ultima poppata, se un nonno senza più la compagna di una vita riuscisse a chiudere a chiave la porta di casa con soddisfazione, se un cane anziano riuscisse ancora a sentirsi soddisfatto dei suoi padroni per l’ultima carezza della giornata prima di accucciarsi a terra, se tutti un giorno ci riuscissimo a trovare, festosamente, nella piazza del paese per dirci quanto siamo soddisfatti, saremmo e sarebbero tutti pronti a lasciare questo mondo con buon animo.

Quanti stati d’animo ci portiamo dietro, ripetendoli scioccamente dentro i nostri mantra quotidiani. Forse nessuno si sentirebbe in forze di garantire per tutti che se un giorno ci dichiarassimo soddisfatti all’unisono, cambierebbero molti equilibri e molte rogne troverebbero facile soluzione. Se qualcuno mi chiedesse quanto costerebbe decidersi un giorno a smarcarsi dalle zavorre delle insoddisfazioni, a stringere con più forza il prossimo abbraccio, a sotterrare i cannoni di orgoglio che quasi mai sparano a salve (e se lo fanno, il fragore e l’eco non arrecano meno turbamenti) -se qualcuno mi chiedesse quindi tutto ciò, io non esiterei a stare in silenzio. Perché siamo umani e l’abitudine ci centra e ci stabilizza; solo nel momento in cui saremo disposti ad allargarne le basi, potremmo capire e agire di più. Ma saranno segni silenziosi a cui bisogna prestare un orecchio attento.

 

Quest’aria satolla non sembra accorgersi, intanto, della pazienza dei miei pensieri. E allora bevo un altro sorso.

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I VOLTI SONO PER GLI AMICI

WHY NOT?

Riepilogo breve del perché quest’anno non abbiamo fatto la classifica di fine anno, non contando il troppo sbatti che ci si mette nel farla.

prima.jpg Embè.

Senti bene il terriccio sotto i polpastrelli, senti i tendini in tensione. Hai l’orecchio teso mentre il vento ti sfiora i capelli. Cerchi di tenere sotto controllo il battito cardiaco, cerchi di respirare a pieni polmoni e cerchi di isolarti dalle grida del pubblico. I piedi rispondo al suono della partenza senza che tu te ne sia accorto.

Piede destro, piede sinistro, uno avanti ad un altro. Falcata dopo falcata, lo sai che questi sono i cento metri della tua vita, lo sai che questa potrebbe essere la corsa della tua vita, lo sai ma tieni il pensiero in disparte perché devi rimanere calmo e concentrato. Inizi a sentire la fatica ma non gli puoi permettere di farti rallentare anche la fatica è dalla tua…

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Il lago che ci contiene

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Dedicato a Giada

Amica mia, torna. C’era una notte verde a ricordarti l’altra sera; il lago è diventato un pantano gelido, ma io non stringo tra le mani nessun perché. Cos’hai tu di me? Le aspettative della giovinezza insieme? I capelli? I lunghi grembiuli blu che si attorcigliavano alle gambe in corsa? Non capto nessun segnale utile a sapere dove tu sia ora. Da qualche parte del mondo sono le 17.32 e so che anche tu le stai vivendo. Per te un’altra vita in un’altra lingua, ad altre temperature. E non c’è niente di più languido per lo spirito che sollazzarsi tra quegli scaffali del “cosa sarebbe successo se”. Spesso ci vado dopo gli orari di chiusura.

So che hai cominciato a fumare; anche io forse l’avrei fatto. Insieme a te, la prima volta. Tu sei per me la prima: il mio primo colore, la mia prima gelosia, i miei primi rossori e nascondigli.  Ma siamo magri di occasioni, macilenti di possibilità e malnutriti di ricordi. Sei uno stato d’animo, un modo di essere per me; qualcosa di tanto confidenziale da aver paura di ammetterlo a se stessi!

Magra, così magra sei sempre stata. Cos’è successo qui? C’è ancora qualcuno che si ricorda qui di te, della tua treccia? Con te è bastato solo un grammo di sale per conoscerti. I riflessi diafani, i riflessi diafani, e scusami se non sono stato un buon amico. C’è ancora tanto altro da calcolare tra noi: gli spazi, i tempi, le reazioni. Che rottura, che gran rottura, perderci tempo.

Sono certo che in qualche avvallamento del mio cuore sia rimasto un elastico che ti appartiene. Sono solo un uomo che cerca di essere amato tra i cementi e gli slanci delle onde. Prenditi cura della tua pelle, stai dietro ad ogni sua grinza. Foliage. 

Tra i tanti volti bianchi, non so se il mio giace in ombra o sono i miei occhi a far luce sul resto; la moltitudine degli altri. Grosse attitudini: non dimentichiamoci degli abbracci, dei palmi delle mani. Delle radici del cuore.

Poi partisti con tua madre,

che non amava più tuo padre.

Non ci fu tempo per salutare,

tu non mi desti tempo per capire,

che di noi sarebbero rimasti i pomeriggi,

le piccole gelosie.

Ai miei ricordi, quel neo pizzicato dai motteggi

che mi ricorda ancora oggi

quei cerchi che solcavo alla ricerca di

qualcosa da stringere.

🌔

Sorgente: 🌔

una nuova

Terraforma

c5q9xznwqaamphe-jpg-largeGiovedì scorso sono uscito nel primo pomeriggio per andare a camminare. Quando sono rientrato a casa ho rincontrato un tramonto di quindici anni fa.

Ieri, dopo pranzo, mi sono accomodato sulla veranda per godermi un po’ di sole. Mi sono accorto che non bastavano due occhi per tenere tutto il panorama unito e ho chiamato mio fratello.

Domenica sera, al quarto bicchiere di vino, in una vecchia osteria e con i miei soliti amici, ho incrociato per caso un signore degli anni Settanta che fumava dentro.

Nemmeno quattro giorni fa ho baciato una ragazza. Oggi, mentre chiacchieravo alla fermata del tram, mi sono reso conto che qualcosa di suo mi era rimasto sotto la lingua.

L’altro ieri ho passato una giornata terribile e a fine serata ero triste e sfiduciato. Così ho messo un paio di parole a stendere sulle righe di un quaderno e ho aspettato che si asciugassero per la mattinata seguente.

Oggi ti ho sentito parlare e hai fatto germogliare un giardino fragrante tra le mie orecchie.

Lo scorso mese, mentre tornavo a piedi a casa, i fari di un’auto hanno scrutato in lontananza la stessa strada che stavo cercando.

Un momento mi è appena passato accanto.