Le divagazioni
C’erano una volta un pezzo di storia, un luogo e un gruppo di persone.
Non esistevano: il numero 12 né ogni riferimento a questa quantità o convenzione algebrica, i biglietti da viaggio e quella abitudine sociale, cordiale ma spesso deleteria, di dover chiedere “Come stai?” o “Cosa ti è successo?”.
Il resto continuava ad esistere, come oggi esistono i giorni di permesso (retribuiti e non), l’app YouTube, la discografia di Paul Simon, le “bath bomb”, la skin care, il digiuno intermittente, il PNRR, Canale 5 e le birrerie artigianali che ospitano serate di stand-up comedy molto spassose, ma con quella sensazione un po’ algida per cui non tutti-tutti sono benvenuti.
Io continuavo a scrivere e riscrivere blocchi di frasi, a mandare avanti racconti che sembravano sgorgarsi sempre nel nuovo capitolo, a rimandare la tesi di un master, a chiamarmi Luca quando mi andava di farlo. Così, durante un giorno di tosse, mi detti il compito di scrivere una storia senza sessi (o senza genere? Stavo già sbagliando, incagliandomi in un anfratto spinoso di parole e temi troppo caldi per poter essere scelti senza conseguenze). Insomma stavo cercando di scrivere senza cercare nomi, pur vedendo bene volti e fisionomie in testa. Ma sulla carta volevo combinarne una grossa: mischiare tutto, impiastricciare colori e toni, concedendo al lettore l’unica possibilità di doversi affidare a questo scrittore che dietro la finzione narrativa dava l’impressione di sapere dove andare e dove far andare il lettore; e invece no.
Non volevo sembrare dozzinale nel farlo — pur sapendo che questo termine non sarebbe mai esistito, non sussistendo proprio il numero 12 come quantità e nozione algebrica –, realizzando uno di quei racconti che vogliono ambire necessariamente a scandalizzare una sola volta quei lettori che si sarebbero poi sentiti costretti a prorompere in un: “No, vabbè! Bellissimo!”, senza poi avere mai l’urgenza di rileggerlo. I lettori non erano affar mio. Così avevo deciso e cosi avrei voluto che fosse anche in futuro.
Ogni tanto mi capitava confondere la voce narrante, di usare una terza persona perché così ero riuscito a fare in un precedente racconto lungo. Mi innervosivo perché sembrava un inutile margine dentro cui forzare la scrittura, che invece reclamava di essere disinibita, sfacciata, che suonasse pure arrogante, spezzettata ma sufficientemente affilata da tagliare la carne dei personaggi. Mi arrabbiavo quando faceva capolino quella terza persona; così ero costretto a stracciare quello che avevo appena scritto e l’intera impalcatura di immagini che vi ruotavano attorno.
Forse ero più arrabbiato con me stesso che con quel terzo incomodo. Scoprii di esserlo perché passavo giorni a fantasticare un riconoscimento pubblico, palese, anche ben retribuito e con tutti gli onori della cronaca. Eppure la sveglia suonava sempre alle sette e con le promesse di diventare davvero bravo facevo colazione ogni giorno.
Avevo, al tempo, una relazione a distanza che si snodava tra lunghi periodi di lontananza e un cumulo di giorni ricavati a margine di ogni mese, vissuti con l’acceleratore premuto per rinnovare l’ebbrezza di un nuovo incontro. Ma dentro, che era pure fuori, mi si sfilacciava tutto e diventavano fantasticherie: una casa da condividere, colazioni e cene a raccontarci le giornate, il sesso che diventava non il culmine, ma un approdo interno, qualcosa su cui riposarsi. Mi spuntavano in fronte dolorosi brufoli arrossati e purulenti su cui passavo le dita e li premevo per evocare il dolore pungente, con la speranza di farli rientrare dentro, come i bernoccoli nei cartoni animati.
Lasciai perdere il racconto che stavo scrivendo. Speravo, prima o poi, che qualcuno lo avrebbe letto solo per dirmi, un po’ scandalizzato e con malcelata deferenza: “E perché non lo hai concluso? Questo è da pubblicare”. Grazie, Fernanda Pivano, ci farò un pensiero: probabilmente adesso che mi hai fatto notare che non sono stato tanto bravo da concludere, deciderò di esserlo e te lo sottoporrò quando avrò finito, così mi dici pure cosa c’è da cambiare e poi mi prenderai pure la mano e mi farai vedere come devo scancellare e riscrivere interi blocchi di frasi, mi segnerai in rosso i punti deboli e io farò finta che tu vorrai solo aiutarmi, mica sostituirti o approfittare della mia scrittura per saltare su un carrozzone che promette di andare a suon di sferzate e di “Io scriverei così…”.
Ero arrabbiato con qualsiasi ipotesi futura perché avevo imparato troppo bene a mettere al centro solo il presente — per forza! Lavoravo come impiegato! –, lasciando che questo futuro prendesse vita solo davanti a frasi ipotetiche, “se..”; oppure, quando volevo apparire meno ombroso e più promettente, dicevo “chissà se…”, perché col “chissà” chi parla ha già pensato a quello che sta pronosticando, ne ha accarezzato l’eventualità e sta cercando subdolamente di convincere l’ascoltatore che quello sia solo un pensiero estemporaneo, una divagazione.
Mi ero stancato seriamente delle molte ripetizioni, anche quelle nel racconto che, tra la testa e la mano, avevano già esaurito la loro urgenza. Decisi di prendermi dei giorni di permesso e di partire per incontrare quella persona. Quella.
Ricordo che durante il viaggio ripensai tante volte al racconto che avevo abortito; ripensavo a tutti i suoi connotati e a cosa avrei potuto migliorare per rimetterlo in sesto come nella chirurgia estetica. Scrivere e pensare di poter scrivere e raccontare così è pericolosissimo. Ci vogliono molte precauzioni perché questa abitudine non si infili anche nel racconto personale e quotidiano di noi stessi. Nessuno sarebbe in grado di indovinarti e forse qualcuno sarà costretto a chiederti la ragione di come stai. Ma queste cose non si vogliono sapere veramente, per questo non dobbiamo chiederle per rispettare la menzogna con cui ci raccontiamo.
Passammo due valichi e altrettante vallate. Ci fu una sosta durante la quale non scesi perché i passeggeri si erano già lamentati del bagno (uno si era pure inzaccherato di liquame l’orlo dei pantaloni toccando il bordo del water). L’esigenza di orinare non passò, ma il viaggio procedette senza intoppi fino alla stazione di arrivo. Questa era gremita, la gente si spintonava e senza cattiveria dicevano “Oh!” e poi tornavano a spingere per farsi più avanti e cercare di inquadrare meglio un’artista che stava seduta nella libreria della stazione per un firmacopie. Io sormontai la folla con lo sguardo paternalistico di chi quelle cose le ha già fatte, sapeva già come sarebbero andate e quanto in fretta sarebbe passata l’infatuazione per un’artista. Avevo l’appuntamento davanti all’uscita della metro che dava sullo spiazzo di una chiesa.
Napoli, per chi non è napoletano, sa venderti a buon prezzo la convinzione illusoria di conoscerla bene perché tutto quello che ti mostra sembra talmente vero che pensi ci sia una fregatura; e lo pensi da non napoletano. E allora ti fai furbo e inizi a credere che per capire Napoli non ti devi far fregare e, perciò, ti inventi di saper come funziona questa città: ci vuole la cazzimma. Chi dice di averla non ce l’ha; anzi l’attestato di merito arriva solo per parere esterno.
Quando risalii le scale della metropolitana rimasi frastornato dal ronzio dei motorini e dalla puzza di miscela acida e combusta. Stava già lì ad aspettarmi ma io potevo avanzare la scusa che quello ad aver viaggiato di più tra i due fossi io. Ci salutammo e io dovetti dire subito:
— Non riesco più a scriverti. Non so come cominciare se so già che non mi risponderai. Ho finito le combinazioni e mi sto stancando.
— Tu vuoi ancora bene a me? Mi pensi ogni tanto?
— Sì ma che c’entra? Io mi sto stancando perché non possiamo più evitare la domanda — feci io, con le lacrime agli occhi, mentre camminavamo vicini lungo il viale affollato.
— Lo so che vuoi sapere e che ci stai male — Disse prendendomi il braccio nell’incavo del gomito. Io iniziai a scivolare dentro una sensazione di appartenenza. Portava il cappuccio sulla testa e io sognavo di infilarmici dentro.
— Ci stai male pure tu, non negartelo.
— Ma tu non puoi compatire così tanto una persona. Devi avere un limite.
Avrei voluto descrivere sulla carta quel momento per deciderne la traiettoria, fotografare quel repentino fiotto di adrenalina che si impadronì dei miei polmoni portandomi a mille i giri di respiri che stavo prendendo per non scucirmi tutto e diventare pura intenzionalità, senza alcun carattere o buona maniera ad arginarmi. Maledissi il fatto di non avere con me un foglio né una penna. Avrei fatto fermare tutta Napoli, sarei sceso giù a Mergellina a cercare una penna se il tempo tra quello che stavo chiedendo a me stesso (di scrivere) e quello che avrei fatto di lì a pochi istanti (chiedere) me lo avesse concesso.
— Come stai?
Nel bus affondai la testa nel cappuccio della giacca che mi ero tolto per via del caldo. In quel buio artificiale aprii gli occhi cercando di vedere se da qualche parte entrasse una luce. Era un gioco che adoravo fare da bambino. C’era una sola regola difatti: guardare ogni punto del buio e vedere se c’era possibilità per la luce; se non c’era, usavo il buio come scenografia e fondale per le mie proiezioni. Se invece qualcosa si illuminava, se il buio rivelava una falla, un difetto di natura (non sarebbe più potuto essere buio), mi lanciavo dentro quel pertugio luminoso alla ricerca della sua origine. Il profumo di sebo, segretamente gradevole, mi convinse a rilassarmi finché non pensai: questa è una buona metafora sulla scrittura.